Era il 2004, settembre direi,
perché ero da poco rientrato al lavoro dopo le ferie estive.
In maniera molto cinica, lucida e
ragionata decisi di provarci con lei.
Sembra brutto da dire ma è così,
pensai: non è bellissima, ma neanche brutta, un tipo insomma, anzi no, è
carina, ma non di quelle che perdi la testa appena le vedi, comunque sembra una
brava ragazza, una a posto, e da quel poco che la conosco mi sa che è anche
simpatica.
Anna lavorava all’ufficio
bollettazione situato in uno dei magazzini della ditta, io all’ufficio
contabilità fornitori nella palazzina degli uffici amministrativi. Le nostre
mansioni non avevano nulla a che fare l’una con l’altra per cui a livello
lavorativo non ci si sentiva mai. Avevo occasione di vederla solo quando
portavo in giro le fatture da far approvare ad alcuni responsabili che si
trovavano nei magazzini, e non si andava mai oltre un semplice e reciproco
scambio di saluti.
Per prima cosa mi informai sulla
sua situazione sentimentale chiedendolo discretamente ad una sua amica/collega
con cui avevo a che fare. Scoprii che era single.
Ricordo ancora come ero agitato,
a come mi sudavano le mani mentre ripetevo mentalmente e aggiustavo ogni parola
della frase che avrei dovuto rivolgerle, prima di afferrare la cornetta
approfittando di un momento di distrazione dei miei due colleghi e comporre il
suo interno due minuti prima di mezzogiorno.
“Ci prendiamo un caffè nella
pausa pranzo?” chiesi col cuore in gola, con quella strana sensazione da
paradosso spazio-temporale.
Attimo di silenzio e “S… sì, va
bene, dai!”
I miei colleghi interdetti non
capirono, non si accorsero di nulla.
Io entusiasmo a badilate.
Alle 13.40 circa la raggiunsi
imbarazzatissimo.
Bella fregatura: il figlio del
titolare, che da quelle parti non si vedeva mai, era lì a parlare con un altro
nostro collega. Inoltre, vedendo lei già operosa dietro alla scrivania, intuii
che aveva già ripreso a lavorare dalle 13.30 (in genere si riprendeva alle
14.00). Brutto momento insomma, cominciai a sudare freddo. Presi in considerazione
l’ipotesi di un repentino dietrofront ma valutai che un’occasione così poteva
anche non ripetersi, non sapevo se avrei riavuto il coraggio di rialzare la
maledetta cornetta in un momento propizio per chiederglielo una seconda volta,
non sapevo se lei quella seconda volta (non più vittima dell’effetto sorpresa)
avrebbe detto ancora sì, e poi anche la seconda volta avrei potuto trovare un
altro ostacolo davanti a cui fare dietrofront. Quando i nostri sguardi si
incrociarono, il suo sembrò dirmi “lascia perdere, non vedi che sono in orario
di lavoro e lì c’è il figlio del capo?!”. Io però pensai “o adesso o mai più”,
così, fingendo noncuranza e sforzandomi di essere il più naturale possibile, le
chiesi: “andiamo?”.
Lei si alzò e non sapendo cosa
fare invitò anche il figlio del boss. Fortunatamente lui rifiutò.
Lei poi mi disse che lo aveva
invitato perché, come avevo intuito, lei era già in orario di lavoro e pause di
quel genere non erano viste di buon occhio. Impacciatissimo la portai davanti
alla macchinetta dicendole che credevo fosse ancora in pausa, e le offrii il
caffè. Fu una cosa super rapida, tra l’altro, cercando di bere in fretta il mio
tè, mi ustionai non poco il palato.
Una cosa che mi fece piacere fu
scoprire che poi ne parlò alla collega/amica (quella che mi aveva dato la
dritta sulla sua singletudine) la quale mi fece i complimenti per il coraggio,
ma torchiata da me via servizio di messaggeria interno per sapere se la mia
“simpatia” era ricambiata si limitò a rispondermi con un laconico: “ASPETTA!”.
Non volle spiegarmi perché.
Ricordo che ogni settimana lavavo
preventivamente la macchina sperando che accettasse un invito ad uscire che
ancora non avevo avuto modo di farle. Tormentandomi su come chiederglielo, dove
portarla nel caso avesse accettato, preoccupandomi di non mandare
irrimediabilmente tutto a rotoli. Volevo fare le cose per bene, facevo
addirittura le prove davanti allo specchio(!) provando l’invito che avrei
voluto farle.
Manco a dirlo io mi ero già
innamorato. In macchina, andando e venendo dal lavoro, cantavo a squarciagola
tutto l’album Mariachi Hotel dei Rio, e tutto sommato, escludendo vari casini
che mi tormentavano in quel periodo, stavo bene. E di coraggio come quello poi
non ne ho avuto più.
Io un po’ aspettai come consigliatomi
dalla collega, ma poi la invitai per un secondo caffè. Stavolta lei era in
pausa, ma con lei c’era un collega (forse chiamato apposta da lei), idem la
terza volta in cui cercai di guardarla bene negli occhi per capire se avrei mai
avuto qualche possibilità, e la risposta, inevitabile, fu: NO, nessuna
possibilità. Me ne convinsi e in tutto erano passati quasi 3 mesi. Lo dissi
anche alla sua amica/collega che non volevo illudermi oltre, e che avrei smesso
di farmi avanti. Dopo qualche giorno, colto dalla troppa frustrazione, in un
momento di lucida follia, realizzando che con i metodi più tradizionali non
riuscivo a parlarle a quattrocchi, mi ridussi ad utilizzare il servizio di
messaggeria interno e le chiesi se una sera di quelle le andasse di venire al
cinema con me. Risposta: “NON POSSO”, accompagnata da un “comunque per il caffè
vieni pure quando vuoi” forse per indorare la pillola. Ci rimasi molto male,
quel “non posso” non lo capivo proprio, cosa significa “non posso”? Semmai “non
voglio”, ecco quello almeno l’avrei digerito meglio. Comunque si trattava di un
rifiuto e non volli indagare oltre.
Ecco, e poi c’è questo ricordo
speciale che ho, di noi due che ci incontriamo in un ufficio di altri, e di lei
che mentre ci scambiamo due parole si avvicina e mi sistema la manica del
maglione che si era arrotolata all’altezza del polso; un attimo di intimità, un
gesto bellissimo che forse non ho capito completamente, forse il tentativo di
mostrarmi che il mio invito era stato comunque apprezzato.
Passò diverso tempo, e a prendere
il caffè da lei non ci andai più. Poco più di un anno dopo lei si licenziò.
L’amarezza per il suo rifiuto era già passata da tempo e il giorno che se ne
andò le dissi che mi ero fatto crescere apposta un po’ di barba per lasciarle
il segno quando sarebbe passata a baciarci per i saluti il giorno dopo, lei poi
passò a baciarmi e fu un bel momento, per una buona mezzora non capii più
niente.
Diverso tempo dopo ci rimasi di sasso quando sentii quasi
accidentalmente da chi ci aveva lavorato insieme molto prima che venisse
trasferita alla nostra sede, che prima di essere spostata da noi le era morto
il fidanzato. Ecco probabilmente svelato quel “non posso”, quel “aspetta” detto
dall’amica/collega e forse anche quel tenero gesto di sistemarmi la manica del
maglione. Ora so che è felicemente fidanzata con un altro. Nelle ultime settimane ho provato a contattarla via social
network. Mica ci volevo provare, ero curioso di sentire come stava. Certo un
po’ speravo anche di affrontare quel
vecchio discorso con serenità e di ricevere una bella spiegazione per metterci
finalmente una bella pietra sopra. Lei mi ha risposto subito, ho fatto
scherzosamente qualche riferimento a quando ci provavo con lei (del tipo
“adesso cosa fai di bello? Mi vieni in mente ogni volta che lavo la macchina
perché quando ci provavo con te la lavavo in continuazione, poi quando mi hai
detto di no ho smesso di farlo e i gestori dell’autolavaggio mi hanno tolto il
saluto”), lei però non mi ha risposto. Passata una settimana, dato che non si è
più fatta sentire, le ho inviato un altro messaggio chiedendole se avevo
scritto qualcosa che l’aveva infastidita, il giorno dopo ha risposto che le ha
fatto piacere quello che le ho scritto e che la tardata risposta era dovuta al
fatto che non controllava spesso i messaggi; forse ignorava che in quel
“social” è possibile verificare quando viene visualizzato un messaggio, e io
sapevo lei l’aveva già visualizzato la settimana prima, un paio di giorni dopo
che glielo avevo mandato. Io comunque le ho risposto qualcosa di banale tipo
“OK, va bene, ciao”. A questo punto non credo che la contatterò di nuovo.